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mercoledì 19 giugno 2013

DICONO DI NOI 2: IL PICKWICK di Michele Di Donato

Questo articolo è stato scritto in occasione della nostra trasferta in quel di Torre Annunziata (NA) ospiti di Diffusione Teatro, con questo, ci sembra doveroso ringraziare chi ci ha voluto ovvero il maestro Eduardo Zambetta, Maestro e instancabile animatore di quel teatro di presidio che muove non solo la cultura ma anche gli animi di un territorio difficile come quello in cui da trent'anni opera lui ed il suo instancabile staff.

28 aqprile 2013

http://www.ilpickwick.it/index.php/teatro/item/397-saffo-canzoni-e-nazisti



Il pickwick.it
SAFFO, CANZONI E NAZISTI di Michele Di Donato

Un night club della Berlino degli anni ’40 fa da scena all’azione ed alla narrazione; la musica dell’epoca, portata dal vivo da una tastiera e un contrabbasso, ne scandirà colonna sonora seguendone l’evolvere passo passo. Io e Miryam è un’ibridazione, una pièce che condensa teatro-canzone e narrazione retrospettiva; ne è soggetto autoreferente una piccola diva capricciosa dei tempi del nazismo, che ripercorre la propria vicenda personale, segnata da un amore speciale, attraverso il quale avviene in lei la presa di coscienza di ciò che effettivamente avveniva fuori, nel mondo circostante a quell’universo ristretto concentrato negli antri fumosi dei night club, fatto di canzonette e champagne.



Libera e sola, Helene (Cristina Siciliano) occupa la centralità della scena, con la sua voce, splendida quando si dispiega in canto, modulando motivi dell’epoca; di contorno, i due musici alla tastiera e al contrabbasso, incarnano figure che vogliono ricondurre alla tipicità di quegli ambienti fumosi, musica e whisky, propri delle atmosfere bogartiane alla Casablanca e nel farlo indulgono a quei toni impostati tipici dei noir americani.
Helene e Miryam, una storia d’amore, folle come può esser folle l’amore a prima vista, folle come poteva esser folle l’amore fra due donne nella Germania degli anni ’40; ancor più folle perché Miryam era ebrea. La messinscena, a cura di Giovanni Gentile, punta prevalentemente sulle doti canore della protagonista e sul ruolo preponderante della musica, relegando il teatro ad ancillare e subalterna funzione narrativa.



Il racconto retrospettivo di Helene, contrappuntato dalla musica del tempo, viene scandito dai cambi d’abito che, in scena e in controluce, dietro un bianco paravento, ella costantemente compie, illustrando una fase dopo l’altra della propria vicenda, raccontando (e cantando) un momento dopo l’altro del proprio strazio; ogni cambio d’abito a marcare un cambio di scenario, ogni cambio d’abito a sancire uno scarto nella coscienza. E così ce la ritroviamo passare dalla vestaglia negligé e da frange, paillettes, autoreggenti e giarrettiera del disimpegno iniziale, ad un abbigliamento marziale che rappresenta il primo passo verso la presa di coscienza del proprio ruolo organico al sistema, che la vuole col braccio teso nel saluto nazista.
Tutto ciò fino alla presa di coscienza definitiva, fino all’acquisizione d'una visione panoramica di una realtà di fatto che finalmente filtra anche nelle fumose, ovattate atmosfere dei night, quegli stessi night in cui giungevano come echi flebili e smorzati le notizie di campi, ghetti e strani treni, quegli stessi night in cui lei e Miryam solevano esibirsi per truppe di soldati morituri, destinati probabilmente a perire serbando negli occhi il riverbero di piacere d’un’ultima immagine di voluttà che avesse loro due come protagoniste.



Il tutto fino al compiersi dell’ineluttabile, il tutto fino a che il folle amore tra “l’ebrea e la puttana” patisce la denuncia, la caserma, la separazione. La narrazione, non scevra dei portati di un apparato retorico di maniera, vede l’io narrante (e cantante) procedere verso una sorta di redenzione morale attraverso il valore superiore dell’amore, che le fa abbracciare un destino che non sarebbe il proprio – lei tedesca, deportata ad Auschwitz come fosse ebrea – in nome d’un’estrema compenetrazione nella persona amata, fino al punto di farle affermare: “Non ci fu un momento in cui io non mi sentii parte di quel popolo, io ero Miryam e Miryam era me”.
L’amore indissolubile, quell’amore folle e “impuro” le dà dunque la forza di superare l’orrore e l’aberrazione, “con quelli che erano rimasti, con quello che di loro era rimasto”, la sua vita continua e si reinventa; di Miryam più nessuna notizia, di Miryam più nessuna traccia. Eppure Miryam rivive in lei ogni sera, ogni sera lei le cuce addosso un finale diverso, ogni sera le inventa un esito speciale, non le serve sapere dove sia, ma è quell’amore che le ha dato la forza di sopravvivere.
Mentre la musica va compulsiva, da un barattolo Helene estrae un foglio polveroso, da cui gronda la cenere dei massacri, ed enuclea sequela spaventosa delle miriadi di genocidi susseguitisi nella storia dll'umanità. Nel mare magnum delle angosce e degli orrori, la microstoria d’una tragedia d’amore, rielaborata in modo fantastico, rivive ogni sera sulle assi d’una ribalta e, rivivendo la storia rivive un amore, rivive Miryam strappandola all’oblio.

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